Ballarò

Ballarò

Una selezione del racconto di Antonino Giordano premiato nella Sezione Racconti autobiografici della 4a edizione di Thrinakìa 2017-2018 Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia

Scritture solidali
Scritture autobiografiche di redenzione e rinascita che mettono in luce sentimenti di solidarietà verso sé stessi, gli altri e il mondo, e sollecitano un’autentica solidarietà fra le lettrici e i lettori.
Archivio della memoria e dell’immaginario siciliano
Ateliers dell’immaginario autobiografico © OdV Le Stelle in Tasca

Ballarò
Antonino Giordano

Piazza Ballarò non l’ho vista mai così. Deserta. Ma oggi è domenica e anche lei fa festa. Dorme forse. E con lei tutti i bottegai, tutti i turisti e quella folla multicolore, multietnica, confusa ma vigile che anima questo mercato.

Ma non era così quel 7 gennaio del 1943. “Nonno mi porti con te?”, “Forza Ninì, vestiti e andiamo. Ma non farmi spendere troppi soldi, se no nonna Agnese mi rimprovera”.  E sì, nonna Agnese era un po’ severa con lui ma forse non aveva tutti i torti. Il nonno infatti, visto che era un uomo libero, era dovuto andare in pensione molto presto. Come mi aveva confidato mia madre, era socialista e non aveva voluto iscriversi al partito fascista, iscrizione obbligatoria visto che era un “tutore dell’ordine”. Allora lo avevano costretto ad andarsene dalla Polizia benché fosse un uomo molto valoroso e avesse avuto tante medaglie, che mi aveva mostrato in segreto e che mi avrebbe regalato quando sarei stato grande.

Spesso venivano a trovarlo dei signori anziani, molto seri. Insieme si sedevano intorno a un tavolo e parlavano molto piano. Avevo dedotto che dovevano essere tutti andati a scuola insieme da bambini perché fra loro si chiamavano compagno. Poi si scambiavano foglietti stampati, giornali oppure sentivano una radio che parlava una lingua per me allora incomprensibile, sicuramente “Radio Londra”, ma che suscitava commenti e reazioni in quei signori attempati. Nonna Agnese non tollerava quelle adunanze, spesso irrompeva e con voce brusca diceva: “Forza Antonio! Saluta i signori e porta il bambino a fare una passeggiata”. Dopo la sfuriata della nonna, nonno Antonio mi pettinava, ungendomi ben bene i capelli di brillantina e immancabilmente mi diceva: “Ninì, mettiamoci la maschera e usciamo”. Faceva freddo quel giorno ma non pioveva e io trotterellavo accanto al nonno finché non arrivammo in quel luogo magico. Eravamo immersi in quella folla vociante dove i mercanti cantavano magnificando la merce, scambiandosi impressioni, saluti ed epiteti. Mi sentivo bene, respiravo forte come quando sfuggivo alla morte.

Gli americani, infatti, cercavano di uccidere più civili che potevano lanciando bombe nei posti più affollati; nelle chiese, negli ospedali, nei mercati. Avevo chiesto a mio padre, in seguito, perché li chiamavano alleati, visto che uccidevano a più non posso ma non mi aveva risposto. “E già”.

Quando c’erano i bombardamenti e in braccio al nonno Antonio ci precipitavamo nei rifugi sotterranei, in mezzo a tanta gente che gridava e gemeva, gli chiedevo angosciato: “Nonno, come devo fare per non morire?”. Lui, abbracciandomi, mi diceva: “Si muore quando si finisce di respirare. Tu respira forte, Ninì, così non muori”.

A Ballarò non c’erano ricoveri e questo gli americani dovevano pur saperlo perché cominciarono a bombardare tutto il mercato mentre io, stringendo la mano del nonno, cercavo di correre appresso a lui. I lastroni che pavimentano ancor oggi Ballarò erano ormai tappezzati di feriti e di morti. La strada mi pare adesso deserta come se volesse proteggere il sonno eterno di coloro che vi morirono quel giorno di settant’anni fa e mi sembra che i lastroni della pavimentazione siano tante lapidi che proteggono i corpi che io calpestai da bambino, in cerca di salvezza.

Mi alzo con fatica, mi asciugo gli occhi e tiro la catena dell’orologio che ho in tasca. Le undici e dieci. Fra quindici minuti dovrebbe partire dalla stazione l’autobus numero 102 che mi lascia quasi sotto casa.

La conservo ancora la cipolla del nonno e, di nascosto, le dò la corda e ci gioco. La appoggio all’orecchio e lei mi regala il suo tic-tac. Forse quello del cuore del nonno che per Ballarò pulsa ancora. Allora sorrido, mi sento al sicuro con quel cuore, con la manina stretta dentro la sua, con nonno Antonio, quell’uomo dolce, coraggioso e libero, di quella libertà che vive d’amore e di purezza.

Tic tac…